I livelli di Pil pro capite del Mezzogiorno sono inferiori a quelli della Grecia: 17.957 euro conto i 18.454 euro ellenici. Le distanze sociali peggiorano. Il Mezzogiorno italiano è più in difficoltà che il resto del Paese. La crisi, spiega il Censis, ha allargato il divario Nord-Sud. Tra il 2007 e il 2012 nel Mezzogiorno il Pil si è ridotto del 10% in termini reali, a fronte di una flessione del 5,7% registrata nel Centro-Nord.
Ma la recessione attuale è solo l’ultimo tassello di una serie di criticità che si sono stratificate nel tempo: piani di governo poco chiari, una burocrazia lenta nella gestione delle risorse pubbliche, infrastrutture scarsamente competitive, una limitata apertura ai mercati esteri e un forte razionamento del credito hanno indebolito il sistema-mezzogiorno fino quasi a spezzarlo.
Negli ultimi decenni il Pil pro-capite meridionale è rimasto in modo stabile intorno al 57% di quello del Centro-Nord, testimoniando l’inefficacia delle politiche di sostegno allo sviluppo, non in grado di garantire maggiore occupazione, nuova imprenditorialità, migliore coesione sociale, modernizzazione dell’offerta dei servizi pubblici. Fra i grandi sistemi dell’Euro zona l’Italia è il Paese con le più rilevanti diseguaglianze territoriali.
Il mercato del lavoro si destruttura e si impoverisce ulteriormente. Dei 505.000 posti di lavoro persi in Italia dall’inizio della crisi, tra il 2008 e il 2012, il 60% ha riguardato il Mezzogiorno (più di 300.000). Il Sud paga la parte più cospicua di un costo già insopportabile per il Paese e si conferma come un territorio di emarginazione di alcune categorie sociali, come i giovani e le donne. Un terzo dei giovani tra i 15 e i 29 anni non riesce a trovare un lavoro (in italia il tasso di disoccupazione giovanile è al 25%). Se poi oltre a essere giovani si è donne, la disoccupazione sale al 40%. Il tasso di disoccupazione femminile totale è del 19% al sud a fronte di un valore medio nazionale dell’11%. I disoccupati con laurea sono in Italia il 6,7% a fronte del 10% nel mezzogiorno.
Un tessuto d’impresa a rischio di deindustrializzazione. Un sistema imprenditoriale già fragile e diradato, è stato sottoposto negli ultimi anni a un processo di progressivo smantellamento, costellato da crisi d’impresa molto gravi come quelle dell’Ilva di Taranto e della Fiat di Termini Imerese. Tra il 2007 e il 2011 gli occupati nell’industria meridionale si sono ridotti del 15,5% (con una perdita di oltre 147.000 Unità) a fronte di una flessione del 5,5% nel Centro-Nord. Oltre 7.600 imprese manifatturiere del Mezzogiorno (su un totale di 137.000 aziende) sono uscite dal mercato tra il 2009 e il 2012, con una flessione del 5,1% e punte superiori al 6% in Puglia e Campania.
Si allargano le distanze sociali. Il Mezzogiorno resta un territorio in cui le forme di sperequazione della ricchezza non diminuiscono, ma anzi si allargano. Calabria, Sicilia, Campania e Puglia registrano indici di diseguaglianza più elevati della media nazionale. Il 26% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno è materialmente povero, cioè con difficoltà ad affrontare spese essenziali a fronte di una media nazionale del 15,7%. E nel Sud sono a rischio di povertà 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6%. Il persistere di meccanismi clientelari, di circuiti di potere impermeabili alla società civile e la diffusione di intermediazioni improprie nella gestione dei finanziamenti pubblici contribuiscono ad alimentare ulteriormente le distanze sociali impedendo il dispiegarsi di normali processi di sviluppo.
Fondi europei: risorse non spese e programmi inefficaci. I contributi assegnati per i programmi dell’obiettivo convergenza destinati alle regioni meridionali ammontano a 43,6 miliardi di euro per il periodo 2007-2013. A meno di un anno dalla chiusura del periodo di programmazione risulta impegnato appena il 53% delle risorse disponibili e spesi 9,2 miliardi (il 21,2%). L’efficacia dei programmi attivati con i fondi europei è discutibile. Al contrario di ciò che è accaduto in altri Paesi con un marcato dualismo territoriale, in Italia la convergenza tra Sud e Nord non si è mai realmente affermata. Nel prossimo ciclo di programmazione l’UE stima che la popolazione sottoposta all’obiettivo convergenza passerà in Italia dall’11% al 14% del totale, mentre altri paesi cala drasticamente tale quota: la Germania passerà dal 5,4% allo 0% e la Spagna dal 9,1% allo 0,9%. Le risorse spese nelle regioni meridionali non solo hanno contribuito debolmente al riequilibrio territoriale, ma hanno rafforzato i circuiti meno trasparenti e congelato l’iniziativa imprenditoriale con incentivi senza obbligo di risultato e progetti spesso estranei alle vere esigenze delle economie locali.
Scuola e formazione. Si spende di più che nel resto del Paese, ma i risultati sono peggiori. Uno dei principali fattori di debolezza del Sud è ancora oggi l’incapacità del sistema educativo di accompagnare processi di sviluppo attraverso la formazione di un capitale umano qualificato, contribuendo così a contrastare il disagio sociale ed economico della popolazione. La spesa pubblica per l’istruzione e la formazione nel mezzogiorno è molto più alta di quella destinata al resto del paese: il 6,7% del pil contro il 3,1% del centro-nord, ovvero 1.170 euro pro-capite nel Mezzogiorno rispetto ai 937 del Resto d’Italia. Eppure, il tasso di abbandono scolastico è del 21,2% al Sud e del 16% al Centro-Nord. La questione generazionale italiana diventa quindi emergenza e allarme sociale nel Mezzogiorno. Tra il 2003 e il 2010 al Sud gli inattivi (né occupati né disoccupati), sono aumentati di oltre 750mila unità, crescono i giovani “Neet” (Not in education, emplyment or training) con alto livello di istruzione. Il 31,9% dei giovani di 15-29 anni non studiano e non lavorano, con una situazione da emergenza sociale in Campania (35,2%) e in Sicilia (35,7%). E il 23,7% degli iscritti meridionali all’università si è spostato verso una localizzazione centro-settentrionale, contro una mobilità di solo il 2% dei loro colleghi del centro e del nord. Sono circa 167 mila i laureati meridionali fuori dal sistema formativo e del mercato del lavoro, con situazioni critiche in Basilicata e Calabria. Uno spreco di talenti inaccettabile.
L’abbandono della sanità pubblica e i bisogni assistenziali crescenti. Il progressivo deterioramento dei servizi sanitari negli ultimi cinque anni è riferito dal giudizio dei cittadini: lo afferma il 7,5% al nord-ovest, l’8,7% al nord-est, il 25,6% al centro e addirittura il 32,1% al sud. Il 17,1% dei residenti meridionali si è spostato in un’altra regione per farsi curare, non fidandosi della qualità e della professionalità disponibili nella propria. Il quadro dei dati forniti dallo studio del Censis è sconcertante. Fotografa i resti di un bombardamento dal quale è indispensabile risollevarsi.
Le soluzioni possibili. Questi dati evidenziano l’incapacità del capitalismo di affrontare e delle istituzioni rispondere ad una crisi che loro stessi hanno creato. La manovra austera ed iniqua che colpisce le classi medie e basse della società è una manovra rivolta al prelievo fiscale tralasciando la crescita economica e sociale. Gli interventi, i piani industriali modello pacchetto Colombo, che hanno finanziato le imprese al Sud, hanno solo consumato, spesso distrutto completamente interi territori. Inoltre la chimera dei fondi europei propugnata dalla Comunità Europea si è rilevata una grande truffa, i fondi europei destinati alle zone più disagiate dell’Unione, che hanno lo scopo di trasformare le zone più povere in comunità ricche attraverso le infrastrutture, l’istruzione e gli investimenti nello sviluppo, non ha prodotto i risultati sperati. Le cause vanno ricercate sopratutto nella cattiva gestione e nei controlli decentrati e troppo deboli, così ch’è molto spesso questi fondi sono finiti nelle mani della criminalità organizzata. Alcuni dei maggiori beneficiari del programma di sviluppo, pensato per sostenere le piccole e medie imprese, sono le multinazionali che con il loro potere politico-economico sono riuscite ad influenzare i decisori dei trasferimenti dei fondi europei. Le popolazioni dopo il miraggio industriale, oggi vengono spogliate dei servizi, ospedali compresi, e realizzazioni, di discariche, inceneritori, campi fotovoltaici, centrali a biomasse, campi eolici. La vocazione naturalistica, agricola, archeologica, gastronomica è ignorata, mortificata. Il capitalismo globale si basa sulla privatizzazione e sulla mercificazione di massa dei beni comuni dell’umanità e della natura incompatibile con il mantenimento dell’equilibrio dell’ecosistema. Ci sono molti esempi che ci mostrano come la logica capitalista è responsabile della crisi ecologica e come una seria politica ambientale deve confrontarsi con gli interessi privati delle grandi imprese.
E’ evidente da questi inesorabili dati che la crisi economica viene pagata in termini di vite umane, dalla popolazione del Sud e in particolare dalle nuove generazioni che sempre più spesso decidono di abbandonare la propria terra, facendo così aumentare il tasso di emigrazione riportandolo ai dati degli anni ’50. Sono infatti i giovani che in particolar modo soffrono la distanza economica-sociale fra settentrione e meridione.
Il settore in cui si registra lieve ripresa è l’agricoltura che vede una crescita del doppio (1,4% rispetto al 0,7% del Centro-Nord). Un reale ritorno alla terra, grazie al noto decreto sui giovani coltivatori, mossi dal reale amore per la terra si sono indirizzati su colture biosostenibili, il circuito dei GAS, i gruppi d’acquisto solidali, combattendo ignoranza dei consumatori su ciò che acquista, che mangia, da dove e come viene prodotto, per la valorizzare i prodotti locali a km zero. Un ponte per il futuro potrebbe essere la riqualificazione dei lavoratori dei settori produttivi ecologicamente insostenibili (i settori degli armamenti, delle automobili, dell’edilizia), mantenendo i diritti dei lavoratori e creando nuovi posti di lavoro nel settore dell’economia sostenibile come l’energia rinnovabile, l’agro-ecologia, la cultura, dai musei alle necropoli greche ancora sepolte. Una massiccia riduzione dell’orario di lavoro, lavorando meno ore e mantenendo i salari, creazione di posti di lavoro e favorire una più equilibrata distribuzione del lavoro domestico e di cura tra uomini e donne.
Le alternative passano nel porre le questioni delle relazioni capitaliste della proprietà. Come socializzare il sistema finanziario e altri settori chiave come l’energia. Controllare produzione per evitare la sovra-produzione, com’è al sud. Le centrali a biomasse sono una speculazione, basata sui certificati verdi, i risultati, saccheggio e devastazione dei territori, senza alcun vantaggio alle popolazioni.
Il punto di partenza per affrontare la crisi sociale ed ecologica è la resistenza sociale, l’organizzazione e la mobilitazione, perché i cambiamenti non si verificano dall’alto, ma sono il risultato della pressione, della lotta in strada, iniziativa dal basso.
L’incapacità di avviare cambiamenti significativi nelle politiche chiave è spiegata principalmente dalla debolezza della risposta sociale alla crisi. Perché se c’è un clima che va cambiato, è proprio il clima sociale. Nel terreno sociale, c’è bisogno di un’alleanza classista e internazionale. Fra gli sfruttati di ogni Sud, le braccia del sud del mondo che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste. Sconfiggendo ignoranza e pregiudizi. Le relazioni dei lavoratori, negli scenari come quelli attuali, sono dominati o dalla paura ed egoismo oppure dalla solidarietà e dalla rabbia contro l’ingiustizia. Fondamentalmente, la posta in gioco è un’uscita alla crisi attraverso metodi, oltre anticapitalisti ed ecologisti, anche femministi e solidali.
La sfida futura sarà di trasformare il disagio sociale in mobilitazione e azione collettiva, e ricostruire una cultura della mobilitazione, la solidarietà e la partecipazione in materia collettiva nei luoghi di lavoro, nei quartieri, nei centri di studio. La gente ha per lungo tempo sperimentato solo sconfitte in generale e/o battute d’arresto, c’è bisogno di contro-esempi che dimostrano che è possibile cambiare le cose.
La conseguenza più importante delle rivoluzioni nel mondo arabo, i movimenti alternativi in Europa, dimostrano che se ci si muove, si combatte, ci si organizza e si esce in strada, che i fondamenti del sistema attuale non sono solidi come sembrano o come siamo portati a credere e quando il disagio diventa rabbia e questa rabbia diventa mobilitazione popolare. Anche se la resistenza sociale è il punto di partenza per cambiare le cose, questo di per sé, non è sufficiente. Abbiamo bisogno di articolare un’ampia politica alternativa legata alle lotte e ai movimenti.
Cosenza, Settembre 2013 Orestes