E’ misurabile l’intelligenza? Come si misura lo sforzo? Esistono davvero livelli differenti di capacità tra gli individui, quando tali livelli vengono calcolati in base ad esigenze esterne, predefinite, imposte da criteri di valutazione finalizzati ad ottenere risultati spendibili e prezzabili? Esiste davvero un’anomalia nell’individuo, quando questi risultati non vengono raggiunti, per cui si può decidere di attuare un criterio “punitivo”, “ri-educativo” o “discriminatorio” su una persona? Quale linea di demarcazione costituisce il confine tra “efficienza” e “malattia della perfezione”?
Il Ministero dell’Istruzione negli ultimi anni ha fortemente propagandato insieme a tutto l’apparato istituzionale il concetto di “merito”. Tanto che, nel 2012, ha suscitato un certo scalpore l’invito rivolto alle scuole superiori, a individuare ogni anno l’alunno migliore, da gratificare con uno speciale titolo e con un premio in denaro. Oggi il Ministro dell’Istruzione Giannini, reintroduce il concetto di merito, già discutibile come strumento discriminatorio per gli studenti, anche per gli insegnanti. “Chi fa di più prende più soldi” . Questa è l’idea di fondo dell’esecutivo che da un lato, sventola la bandiera elettorale della fine del precariato; dall’altro, nasconde il progetto di eliminare definitivamente, con la competizione tra docenti e l’aziendalizzazione delle scuole, il Fondo d’Istituto destinato a queste ultime e gli scatti d’anzianità.
Un progetto in cui l’individuazione del merito di ciascuno è l’altra faccia della selezione negativa di qualcun altro, anzi di molti altri, sancisce un nesso inscindibile tra merito e potere e lascia intravedere nettamente un disegno di ingegneria sociale autoritario e discriminatorio. Ma non solo. La Scuola italiana soffre, si dice, di un eccesso di soggettivismo, che resisterebbe all’introduzione di metodi “oggettivi” (termine storicamente stalinista) di misurazione e valutazione. Il suo male, quindi, si celerebbe nell’irriducibilità di quel residuo soggettivo che si anniderebbe, nel giudizio personale dell’insegnante. Da decenni, infatti, si cerca di curalo con ricette svariate, oggi divenute un programma sistematico che si cerca di realizzare attraverso la somministrazione dei test “Invalsi”. E’ evidente, però, che il fine di tale invasività non è intervenire su un’anomalia, comunque generata dalla Scuola Pubblica: ovvero il giudizio di un singolo su altri individui, ritenuti “passibili” di valutazione e giudizio. Infatti, stando così le cose, basterebbe eliminare dalle scuole il concetto stesso di “valutazione”, come a mio avviso sarebbe giusto, per risolvere il problema. In realtà, la finalità è quella di “istituzionalizzare” definitivamente la “valutazione” come processo oggettivo di identificazione, contrattazione e scambio di competenze, in modo da generare poteri, gerarchie, livelli. La scienza della valutazione costituirebbe, da questo punto di vista, un efficace strumento di polizia; un meccanismo capace di rigenerarsi in molteplici ambiti della società: lavoro, scuole, territorio. Quello repressivo e valutativo, infatti, sembra essere rimasto ormai l’unico strumento di Potere direttamente esercitato dello Stato che, in altri ambiti decisionali, ha abdicato in favore del mercato. Quella contro la “meritocrazia” è dunque una battaglia ampia, che non riguarda esclusivamente gli insegnanti e il mondo della scuola, anche perché sull’ambito educativo si è storicamente fondato il consenso alle peggiori forme di autoritarismo. E’ bene sottolineare, però, che ritratta di una battaglia ridimensionata in partenza, quando si fa appello a retorici slogan in difesa della Scuola Pubblica. Essa non è affatto da salvare, difendere, conservare. Il concetto di istruzione pubblica va abolito, certo non in favore di un sapere “privato”. I saperi vanno costruiti, condivisi, autogestiti, non calati dall’alto come strumento di controllo e conservazione di strategie di dominio. Questo Stato, questa società e questi meccanismi economici che generano guerre, sopraffazioni, massacri, disuguaglianze, messe in atto attraverso leggi e provvedimenti istituzionali, non possono costituire un elemento pedagogico o educativo, tanto da diventare il filtro o la via attraverso la quale passano i saperi. Non possono costituire la discriminante attraverso la quale si decidono luoghi e i tempi di cui i saperi necessitano per delinearsi. Fine di una crescita comune, di tutti, è quello di “insegnarci reciprocamente” a non essere governati, ovvero, creare saperi, senza creare poteri.
Giovanni Maletta, Fucina Anarchica Cosenza