In Italia ci sono 10.048.000 di persone che vivono in condizioni di povertà relativa, pari al 16,6% della popolazione. Tra questi oltre 6 milioni, sono poveri assoluti, cioè non riescono ad acquistare beni e servizi per una vita almeno dignitosa (9,9%). È quanto ha rivelato l’Istat nel report sulla povertà in Italia. Un italiano ogni dieci quindi. La società mercato sembra non in grado di rigenerare ciò che ha perduto, come fa la lucertola con la sua coda. Nel 2012 i poveri assoluti erano l’8% della popolazione. Nel 2013 tra le famiglie l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8% al 7,9%. In Italia sono coinvolte circa 303 mila famiglie e 1 milione 206 mila persone in più rispetto all’anno precedente, con un aumento nel meridione che và oltre 3 milioni di persone, 725 mila persone in più. La povertà assoluta continua ad aumentare tra le famiglie con tre o più componenti e soprattutto tra quelle con figli, in particolare se minori (dall’8,9% al 12,2%). Altro dato importante è che la drammaticità della condizione nelle famiglie è gradata secondo il livello di studio del capofamiglia (più è basso, più la situazione si aggrava).
Nel sud le scelte scellerate rendono ormai impossibile la vita, alla disoccupazione strutturale si accompagna lo smantellamento dei servizi già sottodimensionati, precari ed inefficienti. La logica di dare delle regole al mercato, di costruire un alternativa all’interno dell’attuale assetto sociale gerarchico con un capitalismo dal volto umano e forme di democrazia partecipativa si è dimostrata una chimera. L’ottica concertata che mirava ad una più equa distribuzione delle ricchezze è stata funzionale a foraggiare apparati burocratici e partitici. La produzione oggi, è altrove. In quest’Italietta finta opulenta, molte persone sono sospese tra la disoccupazione e il lavoro part time per poterti condizionare meglio. Il consumo è diventato pura sopravvivenza. Il circuito produci-consuma-crepa, è pervaso di populismo disperato, disposto a credere a Grillo, piuttosto che a Renzi, e menomale che lui, Silvio, non c’è più, (forse)! Le riforme dovrebbero addirittura cambiare il futuro, essere la panacea di tutti i mali. Occorre invece riflettere sulle nuove penurie, sui buchi lasciati nel tessuto sociale dal salto d’epoca delle tecnologie (giganti del web, a pari fatturato, generano un centesimo dei posti di lavoro di una grande azienda meccanica). La domanda è, quando gli esclusi si metteranno in moto per presentare il conto? E quanto sono disposti a mettersi in gioco per reclamare la fine della propria “sfortuna”? Lo faranno a gruppi sparsi, secondo i modi della “società liquida”, o riusciranno a quagliare in qualche maniera fino a farsi “classe”? Prevarranno forme di resilienza, un intelligente(?) adattarsi per risocializzare i costi della fantomatica ripresa o esploderà rabbia e antagonismo, tipo “riprendiamoci quello che ci serve”; se la storia prevede ancora rivoluzioni strutturali, o solamente redistribuzioni anche traumatiche, lo vedremo in un futuro non lontano. Una sola cosa, secondo logica, sembra impossibile: che niente accada, e ognuno di quei dieci milioni di poveri, accetti il proprio destino senza fiatare. E a ben pensarci, più di una rivoluzione o di rivolte sparse, varie, di diverso tipo e qualità, fa paura l’idea di una muta, infinita depressione che assecondi un declino infinito. Un nuovo ciclo di lotte e scioperi, costruire autorganizzazione sociale, sono le uniche strade se non si vuole subire passivamente. Interrogarsi sulle forme di lotta più incisive ed efficaci che i lavoratori hanno saputo mettere in atto, per colpire i processi di valorizzazione del capitale e spezzare le catene dello sfruttamento e della rassegnazione, in agricoltura e nella distribuzione per esempio.
Se i vertici – e con loro la variabile dipendente dei controvertici – sono la rappresentazione politica che si gioca nello spazio di una giornata, la questione della liberazione dal lavoro salariato come scommessa dei movimenti che mirano a spezzare l’ordine sociale, resta sul piatto ed impone un ragionare – ed un agire – più radicalmente volto ad una prospettiva di esodo conflittuale.
Un percorso difficile, ma non eludibile. Non ci sono scappatoie.
La rappresentazione ritualizzata del conflitto che si gioca nei controvertici, anche quando la materialità dell’agire e la violenza istituzionale si incidono nell’immaginario, tanto da divenire passaggio obbligato, bagno sacro per una generazione di attivisti, non riesce tuttavia a oltrepassare la dimensione del simbolico. Poco importa che la narrazione del poi, ci consegni qualche girotondo in tuta o k-wey blu o i fuochi di un luglio genovese. La situazione attuale conferma le nostre idee. L’unico modo per non trascorrere la propria vita tra precariato e disoccupazione, sognando un lavoro sfruttato, è di cambiare radicalmente il modello di produzione. Solo con la lotta è possibile riappropriarsi della propria vita, del proprio tempo, dei propri desideri.
Il cooperativismo autogestionario è un buon strumento di ginnastica rivoluzionaria oggi per la società libera ed egualitaria di domani.
Il vero cambiamento passa dall’azioni individuali e collettive dirette a inceppare i meccanismi del dominio, passare dalle resistenze alle proposte, dalle lotte sociali allo spazio sociale autogestito.
È in questi percorsi che vale la pena spendersi, bruciare energie, rischiare poco o molto, non importa; per ricavarne orgoglio, dignità, solidarietà, fratellanza e complicità. Benzina per incendiare il mondo marcio in cui siamo costretti a vivere e costruirne uno nuovo all’insegna dell’autogestione della libertà, dell’uguaglianza, della gioia di vivere.
La rivoluzione dopotutto è un passo dietro l’altro, avvolte correndo, avvolte saltando, di questi tempi su terreno scivoloso o impervio, fra vermiciattoli schifosi e serpi, ma tutto si può cambiare, e tutti si può fare, basta un pò di volontà, (un bel pò) e liberare la fantasia! E ce ne vuole davvero tanta per cambiare rapporti con le cose e relazioni fra la nostra gente!
Orestes
Pubblicato sul n. 27 di Umanità Nova, anno 94