Nelle cronache degli ultimi giorni, viadotti crollati, un pilone della Palermo-Catania ha ceduto, tagliando in due la Sicilia, e una voragine di un oltre un metro si è aperta in Sardegna sulla statale 554. Opere mal eseguite, peggio progettate, mai finite o abbandonate, e il presidente dell’Anas, gruppo pubblico, già indagato per abuso d’ufficio, il super-manager delle autostrade Pietro Ciucci, annuncia le dimissioni. È Palazzo Chigi a chiedere le dimissioni per bocca di Erasmo D’Angelis, coordinatore della struttura di missione gli ha chiesto di “assumersi le sue responsabilità”. Dopo l’assemblea di metà maggio si dimetterà dall’incarico di presidente e amministratore delegato dell’Anas. Prosegue la ristrutturazione in senso aziendalista ed efficentista del carrozzone Italia. Il piè veloce Matteo Renzi anche questa volta, non ha perso tempo per scaricare un altro boiardo di stato, dopo Ercole Incalza e il Ministro Lupi. Peccato che tutto questo avvenga solo e sempre in risposta a qualche disastro, non per iniziativa politica del governo PD. Il neo ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio incontra l’ex boiardo di stato Ciucci e poche ore dopo sul sito dell’Anas compare un breve comunicato che informa della “intenzione di rimettere l’incarico” e fonti ministeriali fanno sapere che ciò “apre la strada a una nuova stagione per i lavori pubblici e per l’Anas, in sintonia con la discontinuità che si sta avviando al ministero”. Purtroppo tutto ciò non ridarà la vita a Adrian Miholca, il 25enne deceduto lo scorso 2 marzo per il crollo del tratto del viadotto Italia compreso tra Laino Borgo e Campotenese. Era rumeno, e la sua morte non fa notizia. Come l’inchiesta della Procure di Castrovillari che si incrocerà con quella di Firenze sulla tangenti per le grandi opere in Italia: un lungo elenco di appalti dorati finiti nelle mani di una presunta cricca, tra cui anche il terzo macrolotto dell’A3: quello del viadotto Italia. Da un’intercettazione telefonica captata dopo la sciagura, infatti, emerge come uno degli indagati si preoccupasse di verificare i contratti di collaborazione stipulati con una società nella direzione dei lavori (duecentomila euro in quattro anni) dal momento che per sua stessa ammissione, si sarebbe trattato di contratti ai quali non avrebbe fatto seguito alcuna prestazione lavorativa. Dagli atti, inoltre, emerge come il costo complessivo di quel cantiere fosse levitato da 424 a 600 milioni di euro e, dulcis in fundo, non mancano ombre sulle fasi successive all’incidente mortale. A pagare il prezzo del sistema Italia sono in primo luogo le maestranze. La manodopera non ha mai avuto in Italia una giusta considerazione. Tramontata l’ideologia operaista, non è rimasto nessuno o quasi a valorizzare e dare la giusta e doverosa importanza e chi costruisce, lavora, spesso a suo rischio e pericolo i beni materiali, o la loro manutenzione. Questo ha significato negli ultimi decenni un decadimento delle maestranze e delle competenze, come pure progettazioni, sacrificate sull’altare del profitto, in una società dello spettacolo, dove solo l’apparire e ostentare, scimmiottando improbabili VIP, è importante. Strade sempre più larghe e veloci si sovrappongono alle vecchie, le nuove autostrade le cosiddette grandi opere, tunnel, aeroporti, ponti, porti turistici, il più delle volte inutili, fanno da apripista al consumo del territorio, parcheggi, centri commerciali, ipermercati, parchi divertimento, mega cinema, impianti sportivi, e case, case, e ancora discariche o inceneritori. Il territorio usato come merce di scambio, per affermare potere, controllo sociale attraverso l’indotto dell’edilizia che continua a essere, settore trainante nonostante la crisi. Il governo attraverso lo “sblocca Italia”, sciolte le briglie del motore delle grandi opere, moltiplica le colate di cemento, senza alcun intervento reale sul territorio. Lo stato di salute di una collettività passa attraverso la consapevolezza. È sui rifiuti, sull’energia, sulla gestione delle risorse idriche, sulla sanità, oltre che da sempre su edilizia e urbanistica, che nei territori si gestiscono le cordate d’affari, mettendo a serio rischio ambiente, salute e beni dei cittadini. Stiamo pagando a caro prezzo l’industrializzazione e la cementificazione selvaggia degli anni passati. Si costruisce ovunque, si sfrutta la natura, si devastano montagne per realizzare opere inutili e dannose. Fra i compiti della rivoluzione sociale, oltre a dare il giusto valore all’opera umana, magari riqualificata in processo di lotte eco sociali nei territori, c’è anche quello di distruggere tutto ciò che mina il futuro delle prossime generazioni. Noi non vogliamo morire per la produzione, stiamo morendo di diossina, di inquinamento. Una diversa cultura del territorio, una più spiccata attitudine della popolazione a prendersi cura dell’ambiente in cui vive, potrebbero dar vita ad una riflessione ed una pratica collettive capaci di innescare un processo virtuoso, capace di arrestare e, chi sa, invertire la marcia del motore impazzito che ci governa. Non vi sono valori superiori al diritto di vivere bene in un luogo e di gestire la propria esistenza in un rapporto qualificato con il sistema naturale e sociale in cui si svolge. Quando il prelievo di una risorsa, la trasformazione di un’area, la costruzione di un infrastruttura danneggia l’equilibrio di un territorio, e peggiora quindi le condizioni di vita delle persone che compongono la comunità, esso non va attuato.
Orestes