Assistiamo ad un crescente incremento delle diserzioni dalle urne, non che l’ita liano medio sia un accanito frequentatore dei seggi, c’è sempre stato un fisiologico disinteresse per le crocette sulle schede elettorali, ma da circa un lustro, il fenomeno ha cominciato a preoccupare quella politica che sui dati elettorali fonda la sua ragion d’essere. Dal voto di protesta all’astensione di protesta, il passo è abbastanza breve, assai più complesso è decifrare il dato dell’astensione in sé, quanta parte di quella percentuale è astensione consapevole, basata quindi sulla ferma convinzione che il voto sia uno strumento non solo inutile, ma che legittima lo status quo, e invece quanta parte di quel dato sia astensionismo di protesta che segue adagi del tipo “fanno tutti schifo quindi non voto nessuno”? E’ in questo distinguo che dovrebbe innestarsi l’analisi di fase, partire da un dato reale per riuscire ad estrarne non solo una sin- tesi astratta, ma individuare un’ipotesi di lavoro politico che miri tanto ad ampliare l’astensione, quanto a consapevolizzare la scelta. La complessità del fenomeno impo- ne quindi, un’analisi rigorosa e complessa a sua volta, gli stimoli che suggeriscono la diserzione sono molteplici, e non sono tutti figli del sentimento di “irrappresentabilità diffusa”, fin troppo cara ai professionisti della protesta main stream. All’interno del non voto, transitano posizioni diametral- mente opposte, tra chi attende di votare solo l’uomo della provvidenza, e chi at- tende il momento giusto, c’è chi aspetta di vendere il voto al migliore offerente e chi invece attende la rinascita di un partito ideale, che sappia condurre il popolo alla vittoria. Tale e tanta è l’isteria in questa fase che spesso a correr dietro al dato sfugge la realtà del dato stesso, sfugge il fatto che se il trend dovesse continuare imperturbato la sua corsa in salita, il residuo di votanti rimasto, deve inequivocabilmente mostrare il peso dei cosìddetti voti di potere. Più il votante medio non schierato a priori si ritira, più il residuo elettorale è leggibile in una dualità, da un lato i tesserati e gli irriducibili, dall’altro quelli “costretti” a votare; dal momento che il numero dei primi è un dato abbastanza semplice da espungere dal totale, il resto restituisce la reale consistenza dell’elettorato “condizionato”.
Mettendo sotto la lente d’ingrandimento quest’ultimo dato, emerge da un lato il
segreto di Pulcinella, ma dall’altro si viene a chiarire il meccanismo che sta alla base del consenso elettorale, e che inficia in partenza l’agire democratico come strumento plurale di governo della collettività.
L’elettore condizionato si trova imbrigliato in un sistema nel quale non può operare una libera scelta, per varie motivazioni, per convenienza, per necessità, o per coercizione; in questa fase storica la necessità, che si configura spesso nella mancanza di reddito, quindi di occupazione, tende ad essere la spinta propulsiva dominante nel condizionamento dell’elettorato.
Le promesse o le minacce legate al rinnovo di un contratto precario sono una leva potentissima per convincere qualcuno a votare Tizio piuttosto che Caio. Quindi ci si trova davanti ad un elettorato con una stratificazione che non contempla un ragionamento critico su una proposta politica,
politica, ma a fare la differenza è il livello di condizionamento, con l’alta borghesia in cima, che ha i suoi alfieri prediletti e gioca a carte quasi scoperte, poi abbiamo un ceto medio progressivamente schiacciato verso il basso che perde sempre più velocemente la libertà di espressione elettorale, in quanto sempre più schiavo di promesse per farlo uscire dal pantano dell’indigenza e riportarlo ai fasti degli anni 80’. Al di sotto c’è il granaio della politica, tutta quella fetta di società senza futuro, ricattabile e bendisposta a barattare la propria dignità per un posto di lavoro, misero, indegno e malpagato.
Ma l’illusione non dura in eterno e le promesse sono sempre più a corto di car-
burante, e anche i più ricattabili in qualche modo cominciano a dischiudere gli occhi sulla realtà dei fatti e l’arma della protesta si insinua fin dentro le cabine elettorali, in quanto implicitamente riconosciute come strumento del potere politico, senza troppi ragionamenti e analisi, semplicemente molta gente ne ha piene le tasche di un andazzo che non porta nessun cambiamento, non ci si illuda che le persone vedano la reale faccia del potere, o che abbiano finalmente aperto gli occhi e sia pronta alla rivoluzione, ste ciarle ingrassano i
blogger e gonfiano la bocca di chi ha le idee troppo corte.
Il ragionamento dovrebbe trovare la sua chiusura nel ribaltamento del fenomeno, ossia “traghettare” la protesta astensionista, in astensione consapevole, dimostrando l’inefficacia del voto, proprio in quel residuo duale che nonostante la sua irrisorietà consente la legittimazione del potere, legittimazione che potrebbe giungere anche con una percentuale di votanti inferiore al 40%. Tralasciando calcoli e percentuali, possiamo limitarci a tracciare uno scenario ipotetico, ossia che la maggioranza semplice dei votanti, su un dato del 40% è nei fatti il 21% degli aventi diritto al voto che deciderebbe le sorti di tutto un popolo, ossia meno del 10% della popolazione legittimerebbe un governo.
E su questi scenari che probabilmente va tentata una forzatura, per cercare quel punto di rottura che stenta a presentarsi, il punto di crisi, reale smascheramento del meccanismo che alimenta il sistema, è dimostrare che il voto non è che un palliativo, una frottola attraverso la quale ci si sente parte di un momento decisionale, ma l’unica decisione che viene dato di prendere è il nome del carnefice.
J. R.