Iniziativa Internazionalista

Cosenza Riuscito presidio internazionalista, una città di provincia tranquilla nel suo passeggio serale è stata “scetata” da uno speakeraggio solidale per denunciare ciò che accade a tremila km di distanza, compagni storici e non, hanno salutato compiaciuti l’iniziativa della Fucina Anarchica, scesa in piazza con le nuove bandiere rosso nere, di seguito il volantino distribuito:

Ovunque è Kobanê. Ovunque è Resistenza!

La città di Kobanê nel Kurdistan orientale ricadente in Siria è, in questi giorni, assediata dalle forze dello Stato Islamico (IS). Lasciata sola dagli statalismi, è però difesa da tanti volontari e volontarie accorse in questi giorni per permettere a numerosi civili di sfuggire alle forze nemiche dell’IS. La Turchia, intanto, ha chiuso letteralmente le porte ai profughi e profughe, minacciate dal mattatoio della guerriglia urbana. Si combatte, infatti, casa per casa.

Riteniamo occorra aprire, immediatamente, un corridoio al confine turco che consenta aiuti
umanitari e rifornimenti alle forze popolari di autodifesa curde (YPG/YPJ) che stanno difendendo la città di Kobanê, esempio di autogoverno e convivenza pacifica fra popoli, religioni, culture diverse, contro il totalitarismo dell’IS.

La regione del Rojava, dove si trova Kobanê, dal 2011 è stata controllata da forze curde che si sono scontrate contro il regime siriano e contro i gruppi islamisti opposti a quelli di Damasco – e come tali hanno ricevuto sostegni economici dalla Turchia e dagli USA, dall’Arabia e dal Qatar.
Dal 2011 in poi, nella regione di Rojava le comunità si sono autorganizzate secondo la forma di un Confederalismo Democratico non statale. Oggi queste forme di sperimentazione e di emancipazione in Medio Oriente fanno paura a molti: ecco il perché di questa sanguinosa guerriglia.
A chi fa paura una simile sperimentazione? Allo statalismo? All’oscurantismo religioso? Alla NATO? Al capitale? Ormai da tempo il popolo curdo ha mostrato la propria capacità di resistenza e di elaborazione critica. Nel Rojava, il centro di tre cantoni che includono Afrin e Cizre, si sta sperimentando un imprinting che rifiuta lo stato nazione su base etnica con pieno riconoscimento delle varie minoranze, basato sulle comunità locali, che si confederano fra di loro in modalità egualitarie. Le guerrigliere dell’YPJ, armate di kalashnikov e coraggio, rappresentano volti e corpi di un nuovo vento che narra di autogoverno, di ecologia e di libertà. Ricordiamo le ultime posizioni espresse da “Apo” Öcalan, leader del PKK, che dalle prigioni turche dove si trova indegnamente recluso, sostiene che il solo modo, per l’Oriente, di sfuggire sia al dominio del capitalismo americano, sia all’oscurantismo religioso e nazionalista, consiste nella gestione diffusa e strettamente locale, aprendo all’ecologia sociale di Murray Bookchin col quale ha intrattenuto un intenso carteggio. Siamo solidali con la popolazione di Rojava, con i guerriglieri e le guerrigliere delle YPG/YPJ e contro l’oscurantismo a essa nemico.

Proprio per questo, in ogni dove, c’è chi sta riconoscendo come propria la resistenza degli uomini e delle donne di Rojava! Spezziamo l’isolamento! Sosteniamo la resistenza del Rojava! Kobanê LIBERA! Fucina Anarchica Cosenza.

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Alluvioni Sistemiche. Argine Rivoluzionario

Le alluvioni, come quella di Genova e Parma sono diventate normali. Secondo Luca Mercalli, noto meteorologo, dovremo imparare a conviverci. Sono trascorsi quasi cinquant’anni dalla disastrosa alluvione di Firenze ma, con un preoccupante aumento di frequenza, gli eventi disastrosi si moltiplicano. Le cause sono sempre le stesse, ma più gravi. Dissesto idrogeologico, causato da cementificazione selvaggia, mancata manutenzione degli alvei dei fiumi, mutamenti climatici almeno in parte innescati dalla follia delle attività produttive, ovvero di quelle abbandonate, sulle colline liguri, un tempo rigogliose di vigne e uliveti, oggi lasciate a se stesse, senza cura del territorio su cui vivevano. D’accordo le “bombe d’acqua” sono fuori dalla norma, come pure gli uragani nel mediterraneo, eventi che rimandano alla riflessione, sul veloce cambio del clima negli ultimi anni decenni, già affrontate nelle pagine del nostro settimanale.

Secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, in Italia viene cementificata una superficie di circa 86 ettari al giorno, ovvero quanto una grande città, interi territori inghiottiti dal cemento. Specie in pianura, intere zone del ex bel paese sono oggetto di estese conurbazioni senza soluzione di continuità, il terreno non assorbe più le piogge, gli alvei dei fiumi non riescono a far defluire l’acqua, e quindi con assoluta regolarità intere zone del paese sono alluvionate.

La logica seguita è quella della rendita fondiaria speculativa. Costruttori e politici continuano ad espandere senza fine le città, mentre nei centri storici aumentano le case vuote.

GenovaNOcemento

Strade sempre più larghe e veloci si sovrappongono alle vecchie, le nuove autostrade le cosiddette grandi opere, tunnel, aeroporti, ponti, porti turistici, il più delle volte inutili, fanno da apripista al consumo del territorio, parcheggi, centri commerciali, ipermercati, parchi divertimento, mega cinema, impianti sportivi, e case, case, case e ancora discariche o inceneritori.

Il territorio usato come merce di scambio, per affermare potere, controllo sociale attraverso l’indotto dell’edilizia che continua a essere, settore trainante nonostante la crisi.
Senza futuro. Era un slogan del movimento punk, è divenuto l’orizzonte limitato di una classe politica che non bada neppure più al proprio domani, preoccupata dall’arraffare tutto e subito.
Il governo approfitta dell’occasione per rilanciare lo “sblocca Italia”, che renderà ancora più sciolte le briglie del motore delle grandi opere, moltiplicando le colate di cemento, senza alcun intervento reale sul territorio.

Stiamo pagando a caro prezzo l’industrializzazione e la cementificazione degli anni passati. Si costruisce ovunque, si sfrutta la natura, si devastano montagne per realizzare opere inutili, (vedi la TAV) la natura viene violentata in ogni modo pur di produrre denaro e alimentare il capitalismo. Quando poi arrivano i danni allora ci si interroga e si va alla ricerca delle responsabilità, si ricerca un colpevole che anche ammesso si trovi non pagherà mai per i danni commessi perché fa parte di un sistema corrotto in cui ci si para il culo a vicenda, risultato, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato scordiamoci il passato ma non è così che dovrebbe funzionare.

Occorre puntare sull’educazione, dice il meteorologo Mercalli, perché la gente delle zone a rischio, sappia tutelarsi, riducendo le vittime. Ma per città come Genova non ci sarebbe più nulla da fare. Se non demolire buona parte della città, coi suoi corsi d’acqua cementificati e asfaltati. Una prospettiva tanto drastica da elidere ogni prospettiva di azione. Certo, ben poco avrebbe potuto fare quell’argine in più che i pasticci nelle gare d’appalto hanno lasciato nelle scartoffie della Regione, tuttavia, una diversa cultura del territorio, una più spiccata attitudine della popolazione a prendersi cura dell’ambiente in cui vive, potrebbero dar vita ad una riflessione ed una pratica collettive capaci di innescare un processo virtuoso, capace di arrestare e, chi sa?, invertire la marcia del motore impazzito che ci governa.

In uno dei tg qualcuno che spalava dice una semplice grande verità, “ Bisogna ringraziare chi comanda” Vero. Ma è solo una parte della verità. Quando una comunità, in equilibrio con i luoghi in cui è vive, attua una gestione diretta delle proprie necessità e delle proprie risorse preleva quanto è indispensabile e definisce modalità di sfruttamento che non ledono le potenzialità delle risorse, in tale maniera non inibisce il futuro sostentamento e, con comportamenti adeguati tende a ridurre al minimo gli effetti negativi connessi alla trasformazione del territorio. Forse non è troppo tardi. Gli utilizzatori finali la gente comune, ormai sa quali sono i guasti e le cause. Ma lo subiscono acriticamente. Percepiscono l’ineludibilità della merce o della trasformazione e cominciano a maturare richieste alternative, ancora sommarie però, locali, si fa qui o là, e non viene chiesto in modo forte e coerente il cambio strutturale, non si fa proprio. metabolismo urbano
Una faccenda tanto semplice da divenire rivoluzionaria. Una prospettiva lontana? Forse no. Le gente che a Genova e a Parma, senza aspettare lo Stato, si è rimboccata la maniche ed ha cominciato a spalare, è indice di una coscienza civile, la cui moralità non è iscrivibile in percorsi istituzionali, anzi. A Genova alcuni di questi “angeli del fango” hanno provocato l’intervento dell’antisommossa, quando si sono permessi di chiedere ai poliziotti di sporcarsi le divise, per fare, almeno una volta, un lavoro utile. I volontari che hanno spalato frutto di uno stato d’animo solidale bello e comprensibile. Però dietro di loro non vi è alcuna comprensione del fatto che coloro che hanno contribuito a determinare il disastro (politicanti e imprenditori) sono anche quelli che poi si rivolgono al lavoro volontario e gratuito per rimediare alle loro nefandezze. Inoltre i costi della ricostruzione saranno almeno dieci volte tanto quelli che sarebbero serviti a mettere in sicurezza una città disastrata. Altro esempio positivo e concreto, gli Operai dell’Ilva: “doveva esserci un referente per coordinarci ma non è arrivato nessuno così anche oggi ci siamo mossi in autonomia facendoci dare guanti e pale dai privati e abbiamo aiutato chi aveva bisogno di una mano”. La vita cova sotto le ceneri della rassegnazione. Tante facce prima sconosciute si sono riscoperte a sgomitare ed occuparsi del bene comune, a riscoprire socialità, agire insieme, fianco a fianco a ripulire strade, case e quartieri, un riscatto e una sfida a politicanti e imprese di cui sopra. Le comunità possono conservare e migliorare la qualità ambientale del proprio territorio ed il benessere degli individui che la compongono. Tale capacità, o diritto, è una priorità assoluta, indiscutibile, non barattabile con alcun tipo di interesse, istituzionale o privato, nè compensazione economica che tenga. Non vi sono valori superiori al diritto di vivere bene in un luogo e di gestire la propria esistenza in un rapporto qualificato con il sistema naturale e sociale in cui si svolge. Quando il prelievo di una risorsa, la trasformazione di un’area, la costruzione di un infrastruttura danneggia l’equilibrio di un territorio, e peggiora quindi le condizioni di vita delle persone che compongono la comunità, esso non va attuato.

Riuscito il corteo di domenica, molto sentito, contro le politiche speculative, migliaia di Genovesi e non solo hanno sfilato in un crescendo di partecipazione e rabbia al grido di “istituzioni assassine” rivendicando libertà per chi è colpito dalla repressione per essersi opposti alle opere inutili e disastrose come il TAV.

                                                                                     Orestes

In uscita su Umanità Nova n.31, anno 94, Domenica 26 ottobre

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Ovunque è Kobanè, Ovunque è Resistenza

DAF in Kobane 6 
La città di Kobanê nel Kurdistan orientale ricadente in Siria è, in questi giorni, assediata dalle forze dello Stato Islamico (IS). Lasciata sola dagli statalismi, è però difesa da tanti volontari e volontarie accorse in questi giorni per permettere a numerosi civili di sfuggire alle forze nemiche dell’IS. La Turchia, intanto, ha chiuso letteralmente le porte ai profughi e profughe, minacciate dal mattatoio della guerriglia urbana. Si combatte, infatti, casa per casa.

Riteniamo occorra aprire, immediatamente, un corridoio al confine turco che consenta aiuti umanitari e rifornimenti alle forze popolari di autodifesa curde (YPG/YPJ) che stanno difendendo la città di Kobanê, esempio di autogoverno e convivenza pacifica fra popoli, religioni, culture diverse, contro il totalitarismo dell’IS.

La regione del Rojava, dove si trova Kobanê, dal 2011 è stata controllata da forze curde che si sono scontrate contro il regime siriano e contro i gruppi islamisti opposti a quelli di Damasco – e come tali hanno ricevuto sostegni economici dalla Turchia e dagli USA, dall’Arabia e dal Qatar.
Dal 2011 in poi, nella regione di Rojava le comunità si sono autorganizzate secondo la forma di un Confederalismo Democratico non statale. Oggi queste forme di sperimentazione e di emancipazione in Medio Oriente fanno paura a molti: ecco il perché di questa sanguinosa guerriglia.
A chi fa paura una simile sperimentazione? Allo statalismo? All’oscurantismo religioso? Alla NATO? Al capitale?

Ormai da tempo il popolo curdo ha mostrato la propria capacità di resistenza e di elaborazione critica. Nel Rojava, il centro di tre cantoni che includono Afrin e Cizre, si sta sperimentando un imprinting che rifiuta lo stato nazione su base etnica con pieno riconoscimento delle varie minoranze, basato sulle comunità locali, che si confederano fra di loro in modalità egualitarie. Le guerrigliere dell’YPJ, armate di kalashnikov e coraggio, rappresentano volti e corpi di un nuovo vento che narra di autogoverno, di ecologia e di libertà. Ricordiamo le ultime posizioni espresse da “Apo” Öcalan, leader del PKK, che dalle prigioni turche dove si trova indegnamente recluso, sostiene che il solo modo, per l’Oriente, di sfuggire sia al dominio del capitalismo americano, sia all’oscurantismo religioso e nazionalista, consiste nella gestione diffusa e strettamente locale, aprendo all’ecologia sociale di Murray Bookchin col quale ha intrattenuto un intenso carteggio.

DAF in Kobane 2
Siamo solidali con la popolazione di Rojava, con i guerriglieri e le guerrigliere delle YPG/YPJ e contro l’oscurantismo a essa nemico.

Proprio per questo, in ogni dove, c’è chi sta riconoscendo come propria la resistenza degli uomini e delle donne di Rojava!

Spezziamo l’isolamento!

Sosteniamo la resistenza del Rojava!

Kobanê LIBERA!

Fucina Anarchica Cosenza.

FIP Cosenza 15/10/2014

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Disoccupy. Dei processi sociali in rivolta

In Italia ci sono 10.048.000 di persone che vivono in condizioni di povertà relativa, pari al 16,6% della popolazione. Tra questi oltre 6 milioni, sono poveri assoluti, cioè non riescono ad acquistare beni e servizi per una vita almeno dignitosa (9,9%). È quanto ha rivelato l’Istat nel report sulla povertà in Italia. Un italiano ogni dieci quindi. La società mercato sembra non in grado di rigenerare ciò che ha perduto, come fa la lucertola con la sua coda. Nel 2012 i poveri assoluti erano l’8% della popolazione. Nel 2013 tra le famiglie l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8% al 7,9%. In Italia sono coinvolte circa 303 mila famiglie e 1 milione 206 mila persone in più rispetto all’anno precedente, con un aumento nel meridione che và oltre 3 milioni di persone, 725 mila persone in più. La povertà assoluta continua ad aumentare tra le famiglie con tre o più componenti e soprattutto tra quelle con figli, in particolare se minori (dall’8,9% al 12,2%). Altro dato importante è che la drammaticità della condizione nelle famiglie è gradata secondo il livello di studio del capofamiglia (più è basso, più la situazione si aggrava).

Nel sud le scelte scellerate rendono ormai impossibile la vita, alla disoccupazione strutturale si accompagna lo smantellamento dei servizi già sottodimensionati, precari ed inefficienti. La logica di dare delle regole al mercato, di costruire un alternativa all’interno dell’attuale assetto sociale gerarchico con un capitalismo dal volto umano e forme di democrazia partecipativa si è dimostrata una chimera. L’ottica concertata che mirava ad una più equa distribuzione delle ricchezze è stata funzionale a foraggiare apparati burocratici e partitici. La produzione oggi, è altrove. In quest’Italietta finta opulenta, molte persone sono sospese tra la disoccupazione e il lavoro part time per poterti condizionare meglio. Il consumo è diventato pura sopravvivenza. Il circuito produci-consuma-crepa, è pervaso di populismo disperato, disposto a credere a Grillo, piuttosto che a Renzi, e menomale che lui, Silvio, non c’è più, (forse)! Le riforme dovrebbero addirittura cambiare il futuro, essere la panacea di tutti i mali. Occorre invece riflettere sulle nuove penurie, sui buchi lasciati nel tessuto sociale dal salto d’epoca delle tecnologie (giganti del web, a pari fatturato, generano un centesimo dei posti di lavoro di una grande azienda meccanica). La domanda è, quando gli esclusi si metteranno in moto per presentare il conto? E quanto sono disposti a mettersi in gioco per reclamare la fine della propria “sfortuna”? Lo faranno a gruppi sparsi, secondo i modi della “società liquida”, o riusciranno a quagliare in qualche maniera fino a farsi “classe”? Prevarranno forme di resilienza, un intelligente(?) adattarsi per risocializzare i costi della fantomatica ripresa o esploderà rabbia e antagonismo, tipo “riprendiamoci quello che ci serve”; se la storia prevede ancora rivoluzioni strutturali, o solamente redistribuzioni anche traumatiche, lo vedremo in un futuro non lontano. Una sola cosa, secondo logica, sembra impossibile: che niente accada, e ognuno di quei dieci milioni di poveri, accetti il proprio destino senza fiatare. E a ben pensarci, più di una rivoluzione o di rivolte sparse, varie, di diverso tipo e qualità, fa paura l’idea di una muta, infinita depressione che assecondi un declino infinito. Un nuovo ciclo di lotte e scioperi, costruire autorganizzazione sociale, sono le uniche strade se non si vuole subire passivamente. Interrogarsi sulle forme di lotta più incisive ed efficaci che i lavoratori hanno saputo mettere in atto, per colpire i processi di valorizzazione del capitale e spezzare le catene dello sfruttamento e della rassegnazione, in agricoltura e nella distribuzione per esempio.

Se i vertici – e con loro la variabile dipendente dei controvertici – sono la rappresentazione politica che si gioca nello spazio di una giornata, la questione della liberazione dal lavoro salariato come scommessa dei movimenti che mirano a spezzare l’ordine sociale, resta sul piatto ed impone un ragionare – ed un agire – più radicalmente volto ad una prospettiva di esodo conflittuale.

Un percorso difficile, ma non eludibile. Non ci sono scappatoie.

La rappresentazione ritualizzata del conflitto che si gioca nei controvertici, anche quando la materialità dell’agire e la violenza istituzionale si incidono nell’immaginario, tanto da divenire passaggio obbligato, bagno sacro per una generazione di attivisti, non riesce tuttavia a oltrepassare la dimensione del simbolico. Poco importa che la narrazione del poi, ci consegni qualche girotondo in tuta o k-wey blu o i fuochi di un luglio genovese. La situazione attuale conferma le nostre idee. L’unico modo per non trascorrere la propria vita tra precariato e disoccupazione, sognando un lavoro sfruttato, è di cambiare radicalmente il modello di produzione. Solo con la lotta è possibile riappropriarsi della propria vita, del proprio tempo, dei propri desideri.

7409_10203515401583131_6998093891518937528_nIl cooperativismo autogestionario è un buon strumento di ginnastica rivoluzionaria oggi per la società libera ed egualitaria di domani.

Il vero cambiamento passa dall’azioni individuali e collettive dirette a inceppare i meccanismi del dominio, passare dalle resistenze alle proposte, dalle lotte sociali allo spazio sociale autogestito.

È in questi percorsi che vale la pena spendersi, bruciare energie, rischiare poco o molto, non importa; per ricavarne orgoglio, dignità, solidarietà, fratellanza e complicità. Benzina per incendiare il mondo marcio in cui siamo costretti a vivere e costruirne uno nuovo all’insegna dell’autogestione della libertà, dell’uguaglianza, della gioia di vivere.

La rivoluzione dopotutto è un passo dietro l’altro, avvolte correndo, avvolte saltando, di questi tempi su terreno scivoloso o impervio, fra vermiciattoli schifosi e serpi, ma tutto si può cambiare, e tutti si può fare, basta un pò di volontà, (un bel pò) e liberare la fantasia! E ce ne vuole davvero tanta per cambiare rapporti con le cose e relazioni fra la nostra gente!

Orestes

Pubblicato sul n. 27 di Umanità Nova, anno 94

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Muoiono sempre i soliti

Continua la serie di incidenti sul lavoro, una serie impressionante di “incidenti”. A Rovigo due operai e il conducente dell’autocisterna sono morti sul colpo per le esalazioni tossiche. In una fabbrica che si occupa del trattamento dei rifiuti industriali. Un quarto cadavere rinvenuto mentre i vigili del fuoco bonificavano l’area. Grave un quinto dipendente. Potrebbe esserci un errore umano all’origine della tragedia, ma secondo la Procura “non sono state rispettate le norme della linea produttiva”. In provincia di Ravenna due operai sono morti a causa del cedimento di una porzione di una parete in un capannone. Secondo le testimonianze raccolte dai vigili del fuoco intervenuti sul posto per verificare che non vi siano altre persone coinvolte, i due erano impegnati nella costruzione della struttura, posizionati su una piattaforma aerea che è stata devastata dal pesante manufatto, schiacciati da una trave che stava per essere montata sulla sommità del nuovo capannone.

Alla Raffineria di Milazzo una vasta nube nera si è alzata nel cuore della notte a causa di un’incendio, per fortuna senza vittime dirette, (ma dei fumi neri e particolato, ne vogliamo parlare?) che ha bruciato per circa 12 ore, all’interno di una cisterna piena a metà di virgin nafta (semilavorati di benzina), alcune indiscrezioni non confermate dai dirigenti della raffineria dicono che il serbatoio andato fuoco presentava alcune anomalie.

Solo qualche anno fa la strage alla ThyssenKrupp di Torino: 4 operai bruciati vivi, altri 3 morti dopo giorni di terribile agonia, il processo ai vertici dell’azienda, ai quali per la prima volta viene contestato l’omicidio volontario.

Fra gli effetti della crisi c’è la diminuzione dei morti sul lavoro, passati, sembra dai 4 al giorno, 1.500 all’anno, di anni fa, ai circa 1100 degli ultimi anni, compresa però la strana cifra che rimane costante, dei lavoratori che non sono stati considerati morti sul lavoro dall’Inail, cioè circa 500.

guerra stato e capitaleC’è da chiedersi come mai non vengono considerati morti sempre lo stesso eguale numero di persone. Si può dunque dire che la sicurezza è diminuita anziché aumentare, a fronte delle centinaia di miglia di licenziamenti, ricordando che parliamo dei dati ufficiali e non di tutta l’economia sommersa e dal fatto che la maggior parte degli accidenti avvengono in agricoltura dove negli ultimi anni è aumentata la manodopera “straniera” spesso a nero.

Uno degli effetti delle politiche di Berlusconi fu di alleggerire la normativa sulla Sicurezza sul lavoro: meno ispettori, meno controlli, meno intralci burocratici per le imprese, e tutto a spese della sicurezza per i lavoratori. E le cose non sono cambiate con nelle successive legislature.

Un terzo dei lavoratori morti ha oltre 60 anni. La riforma Fornero ha inciso su queste morti, non avendo fatto nessuna distinzione nell’allungamento dell’età pensionabile tra chi svolge un lavoro pericoloso e usurante e chi uno d’ufficio.

Al contrario, nonostante la crisi in proporzione assistiamo ad un aumento del fenomeno che ci vede primi in Europa in rapporto al numero di abitanti, il solo parametro valido per valutare l’andamento delle morti in una provincia o in una regione. In realtà, se ai dati Inail si aggiungono gli incidenti dei lavoratori, italiani e stranieri, che lavorano in nero e le morti causate dalle malattie professionali, il numero dei morti sul lavoro e di lavoro supera l’indegna cifra di 10 morti al giorno.

Dobbiamo sempre pretendere di più e produrre condizioni dove una persona non debba giocarsi l’esistenza sul posto di lavoro. Senza il minimo dubbio la (scarsa) sicurezza è un problema e senza il minimo dubbio è necessaria una reazione popolare all’offensiva padronale che attacca le nostre condizioni di vita e rendono, letteralmente, mortali le città e i luoghi in cui viviamo quasi servili, con salari bassissimi ed altissimi tassi di incidenti e morti sul posto di lavoro.

Situazioni che vedono la complicità dei sindacati confederali. Subito dopo, tutti a spargere lacrime false e retoriche: i padroni, i politici, i sindacati confederali.

I morti sul lavoro non sono mai una fatalità: sono parte della brutalità e della violenza del capitalismo e della sua logica del profitto; non ci sono vittime del destino, ma lavoratori assassinati dall’aumento dello sfruttamento e dal cinismo dei padroni, il numero delle richieste di indennizzo per malattie professionali è diminuito com’è diminuito il lavoro salariato.

La questione sicurezza, senza il minimo dubbio, è urgente, è attuale e riguarda allo stesso modo, lavoratori e utenti. Non ce la daranno, se non saremo noi a riprendercela. Basta protagonismi e settarismi portati avanti da leader e derive politiche nell’autorganizzazioni sindacali. Per tutti questi anni il destino è stato affidato a “salvatori” di ogni genere, fino al punto di perdere ogni traccia di dignità. In quanto lavoratori dobbiamo assumere le nostre responsabilità invece di delegare le nostre speranze a capetti “illuminati” e “abili”. Nello stesso modo in cui stiamo lottando per non abbandonare la nostra vita nelle mani dei padroni e dei burocrati.

Un attenzione in più andrebbe posta alla salute delle donne, costrette a conciliare vita familiare e lavorativa continuando a lavorare doppiamente sopportando doppia fatica, doppio stress, doppie ripercussioni sulla salute ma senza aver in cambio alcun riconoscimento o aiuto. Più della metà delle donne ha ancora il carico del lavoro domestico anche se ha un impiego.

Unica soluzione per contrastare l’attacco su tutti i fronti che stiamo subendo, è creare forme di “resistenza collettive”.

Promuovere l’idea dell’autorganizzazione e della solidarietà nei posti di lavoro; comitati di lotta ed iniziative collettive dal basso, abolendo le burocrazie sindacali. Per anni abbiamo dovuto sopportare la miseria, il ruffianesimo e i soprusi nei posti di lavoro. Ci siamo abituati a contare i nostri colleghi morti, la cui morte viene etichettata come “incidenti sul lavoro”. Disinteressati o invitati a chiudere gli occhi sugli immigrati – nostri fratelli in lotta nella vita quotidiana – che vengono assassinati. Ci siamo stufati di vivere con l’ansia di come procurarci il salario, i contributi e una pensione che sta diventando sempre di più un miraggio. 525733_630483130319079_1883114445_nLa nostra vita è minacciata dalla generale insicurezza dei luoghi di lavoro, sempre più luoghi di morte. Perché il fatto di ritornare a casa o meno dipende dal gesto di ognuno di noi. Ogni lavoratore è responsabile della propria e altrui vita, troppe volte ho visto nei cantieri gesti irresponsabili dettati si dalla fretta, si dalla stanchezza, certamente dalla noia, ma soprattutto dalla leggerezza, per non dire menefreghismo. Allora occorre che la questione della sicurezza ridiventi una battaglia di civiltà, cioè sensibilità nei confronti di condivide la nostra stessa vita o mesi di lavoro, e quindi classista, riconoscimento di un uguale destino, in quel giorno o nella storia di singoli lavoratori, che insieme tornano a farsi classe, di chi costruisce la realtà in cui si vive, e quindi finalmente con un ottica rivoluzionaria, che cambi le relazioni quotidiane le giuste informazioni, le conoscenze ed esperienze, che magari diventi mentalità per tornare a casa la sera. Perchè l’opera umana diventi finalmente, rivoluzionata, un luogo di libera espressione e d’incontro di persone e non lavoratori. Per non morire da schiavi !

                                                                                                                  Orestes

Pubblicato su Umanità Nova n. 28 anno 94

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MERITO O MALATTIA DELLA PERFEZIONE?

E’ misurabile l’intelligenza? Come si misura lo sforzo? Esistono davvero livelli differenti di capacità tra gli individui, quando tali livelli vengono calcolati in base ad esigenze esterne, predefinite, imposte da criteri di valutazione finalizzati ad ottenere risultati spendibili e prezzabili? Esiste davvero un’anomalia nell’individuo, quando questi risultati non vengono raggiunti, per cui si può decidere di attuare un criterio “punitivo”, “ri-educativo” o “discriminatorio” su una persona? Quale linea di demarcazione costituisce il confine tra “efficienza” e “malattia della perfezione”?

Il Ministero dell’Istruzione negli ultimi anni ha fortemente propagandato insieme a tutto l’apparato istituzionale il concetto di “merito”. Tanto che, nel 2012, ha suscitato un certo scalpore l’invito rivolto alle scuole superiori, a individuare ogni anno l’alunno migliore, da gratificare con uno speciale titolo e con un premio in denaro. Oggi il Ministro dell’Istruzione Giannini, reintroduce il concetto di merito, già discutibile come strumento discriminatorio per gli studenti, anche per gli insegnanti. “Chi fa di più prende più soldi” . Questa è l’idea di fondo dell’esecutivo che da un lato, sventola la bandiera elettorale della fine del precariato; dall’altro, nasconde il progetto di eliminare definitivamente, con la competizione tra docenti e l’aziendalizzazione delle scuole, il Fondo d’Istituto destinato a queste ultime e gli scatti d’anzianità.

Un progetto in cui l’individuazione del merito di ciascuno è l’altra faccia della selezione negativa di qualcun altro, anzi di molti altri, sancisce un nesso inscindibile tra merito e potere e lascia intravedere nettamente un disegno di ingegneria sociale autoritario e discriminatorio. Ma non solo. La Scuola italiana soffre, si dice, di un eccesso di soggettivismo, che resisterebbe all’introduzione di metodi “oggettivi” (termine storicamente stalinista) di misurazione e valutazione. Il suo male, quindi, si celerebbe nell’irriducibilità di quel residuo soggettivo che si anniderebbe, nel giudizio personale dell’insegnante. Da decenni, infatti, si cerca di curalo con ricette svariate, oggi divenute un programma sistematico che si cerca di realizzare attraverso la somministrazione dei test “Invalsi”. E’ evidente, però, che il fine di tale invasività non è intervenire su un’anomalia, comunque generata dalla Scuola Pubblica: ovvero il giudizio di un singolo su altri individui, ritenuti “passibili” di valutazione e giudizio. Infatti, stando così le cose, basterebbe eliminare dalle scuole il concetto stesso di “valutazione”, come a mio avviso sarebbe giusto, per risolvere il problema. In realtà, la finalità è quella di “istituzionalizzare” definitivamente la “valutazione” come processo oggettivo di identificazione, contrattazione e scambio di competenze, in modo da generare poteri, gerarchie, livelli. La scienza della valutazione costituirebbe, da questo punto di vista, un efficace strumento di polizia; un meccanismo capace di rigenerarsi in molteplici ambiti della società: lavoro, scuole, territorio. Quello repressivo e valutativo, infatti, sembra essere rimasto ormai l’unico strumento di Potere direttamente esercitato dello Stato che, in altri ambiti decisionali, ha abdicato in favore del mercato. Quella contro la “meritocrazia” è dunque una battaglia ampia, che non riguarda esclusivamente gli insegnanti e il mondo della scuola, anche perché sull’ambito educativo si è storicamente fondato il consenso alle peggiori forme di autoritarismo. E’ bene sottolineare, però, che ritratta di una battaglia ridimensionata in partenza, quando si fa appello a retorici slogan in difesa della Scuola Pubblica. Essa non è affatto da salvare, difendere, conservare. Il concetto di istruzione pubblica va abolito, certo non in favore di un sapere “privato”. I saperi vanno costruiti, condivisi, autogestiti, non calati dall’alto come strumento di controllo e conservazione di strategie di dominio. Questo Stato, questa società e questi meccanismi economici che generano guerre, sopraffazioni, massacri, disuguaglianze, messe in atto attraverso leggi e provvedimenti istituzionali, non possono costituire un elemento pedagogico o educativo, tanto da diventare il filtro o la via attraverso la quale passano i saperi. Non possono costituire la discriminante attraverso la quale si decidono luoghi e i tempi di cui i saperi necessitano per delinearsi. Fine di una crescita comune, di tutti, è quello di “insegnarci reciprocamente” a non essere governati, ovvero, creare saperi, senza creare poteri.

Giovanni Maletta, Fucina Anarchica Cosenza

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NO MUOS Campeggio di lotta

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I comitati No Muos hanno deciso di fare un campeggio resistente tra il 6 e al 12 agosto. Il campeggio si è tenuto nel terreno acquistato attraverso una campagna nazionale grazie anche a Banca Etica e le tante donazioni a lei pervenute. Importante la partecipazione di delegazioni provenienti da varie situazioni e città. Attivist* di altri movimenti contro le grandi opere e la devastazione ambientale. Pensato come campeggio di lotta, un’iniziativa di confronto sui temi dell’antimilitarismo, delle lotte territoriali, su Palestina, servitù militari, lotte territoriali, autorganizzazione dalle campagne alle città e prospettive di movimento.

Occasione per i movimenti di costruire insieme un’ agenda programmatica di lotte e conflitti, di battaglie e percorsi di condivisione, per continuare a tessere le fila di un movimento euro-mediterraneo di trasformazione.

Abbiamo deciso di rinnovare anche quest’anno l’invito a tutte le realtà di lotta contro le devastazioni ambientali, la privatizzazione dei beni comuni, lo sfruttamento e la precarizzazione dei/lle lavoratori/rici, ai/lle militanti pacifisti e antimilitaristi di tutta l’Italia, e del mondo a supportare la nostra estate di lotta per la smilitarizzazione della Sughereta e della Sicilia.

Crediamo inoltre che l’appello acquisti ancora più forza in questo momento nel quale a Gaza, in Siria, in Ucraina e in Libia conflitti stanno martoriando i civili, mostrando chiaramente come intere popolazioni soffrano in maniera drammatica le politiche di guerra dell’occidente, col rischio di continuare a trascinare l’Italia in criminali e costose “Missioni Umanitarie” alimentando la spregiudicata e inaccettabile militarizzazione dei nostri territori, delle nostre vite e del Mediterraneo, diventato oramai un gigantesco cimitero di migranti a causa delle politiche razziste della fortezza Europa. Non bisogna arrendersi a chi con arroganza e violenza impone scelte di cui noi pagheremo il prezzo, ammalandoci e diventando nello stesso tempo obiettivo militare e complici di tutte le guerre che gli USA faranno in futuro utilizzando il MUOS.

Nel campeggio funziona una cucina autogestita, con prodotti locali e Cena sociale (a cura de Lotto con l’Orto) e dei comitati siculi.

La sera fra intrattenimenti e racconti intorno al fuoco, fra un assemblea e l’altra, decine di persone, hanno usufruito dei servizi autogestiti e degli spettacoli teatrali o musicali.

In un clima di convialità e solidarietà, in cui i diversi dialetti italici si sono incrociati e, con e nelle varie tendenze politiche e sociali confrontate, s’interrogano sulle prospettive nel concreto di una lotta che riguarda tutti noi, il nostro futuro, la vita dei tempi a venire.

Nonostante nel pomeriggio di sabato 2 agosto, alla luce del sole, il Presidio permanente NO MUOS di Niscemi sia stato devastato; ogni oggetto e suppellettile presente dentro la baracca distrutto o reso inservibile. Il vile gesto vandalico un chiaro messaggio intimidatorio verso il movimento NO MUOS che si accingeva a dare vita al campeggio resistente e alla manifestazione del 9 agosto, si aggiunge agli altri fin troppo chiari segnali arrivati in queste settimane: dai fogli di via a 29 attivisti, cui è stato proibito di entrare nel territorio di Niscemi, al rifiuto apposto al percorso della manifestazione del 9 dentro la Sughereta, al continuo stillicidio di denunce e convocazioni per attivisti rei di aver preso parte a manifestazioni e iniziative diversi mesi fa.

Per questo, azioni repressive “legali” e “illegali” vedono protagonisti magistratura, forze di polizia e manovalanza malavitosa, unite dal comune obiettivo di spianare la strada all’invasore americano, e di mettere a tacere con ogni mezzo l’opposizione che da anni resiste in contrada Ulmo ed in paese ad uno dei più potenti progetti bellici che abbia mai interessato il territorio italiano.

Ma il movimento NO MUOS non si è lasciato intimidire ha reagito facendo il proprio dovere di rispondere adeguatamente, di continuare la battaglia, di organizzare al meglio il campeggio di lotta. Ogni atto repressivo, ogni provocazione, ogni intimidazione ci dà conferma di essere nel giusto e rafforza la convinzione di portare sino in fondo questa lotta, fino allo smantellamento del MUOS e della base NRTF, per una Sicilia senza basi di morte, per un mondo senza guerra.

Oggi più che mai bisogna fermare la guerra e il significato concreto della nostra presenza a Niscemi, ogni occasione sarà buona per autorganizzare una crescente Resistenza popolare per dare il nostro contributo a fermarla nei nostri territori. Ci troviamo al centro di una commedia planetaria nella quale siamo insieme vittime e carnefici – o almeno corresponsabili – di inaudite sofferenze. E qualsiasi ipotesi di cambiare la realtà si scontra con la difficoltà stessa di percepirla. Ci concentriamo sulla fatica di strappare il velo di indifferenza che sembra rendere vano ogni sforzo. Ci tuffiamo nella mischia quasi certi che ogni nostra azione sarà stata come al solito ininfluente rispetto alle grandi decisioni dei potenti. Se riusciamo a provocare uno slittamento dell’orizzonte anche soltanto di qualche millimetro, a risvegliare qualche coscienza ad ampliare la consapevolezza, forse, forse qualcosa l’abbiamo vinta.

Al ritorno incontriamo migranti al lavoro nelle campagne sicule, arse ma vive, uno di loro in bicicletta con un enorme vecchia televisione in bilico sul portapacchi.

Scritto a più mani fra chi c’era e chi è rimasto.

 

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PIANO RENZI ! Sulla strada ci sono buche e pietre!!

 

renzi gelatoA Renzi è stato affidato il compito del mantenimento dello status quo, fondato su violenza e sfruttamento, e il suo ammodernamento in chiave efficientista e aziendalista.

La posta in gioco è alta, controriforma istituzionale, accentramento dei poteri, difficoltà di bilancio e ricerca fondi, semestre europeo e pressioni americane in campo economico, commerciale e militare. Gli ultimi dati parlano di deflazione e sconfessano il giovane premier piè veloce, l’italietta è in recessione, e non ne esce. Il pilota prende di petto il drammatico dato del Pil, che tocca il livello peggiore degli ultimi 14 anni, detta le linee su cui muovere l’azione di governo nei mille giorni: riforme istituzionali, istruzione, spending review “una scelta politica, che non si può rinviare“, passando per lavoro, fisco, giustizia e infrastrutture. “Dipende solo da noi invertire la rotta” incalza Renzi. Basta tentennamenti, frenate o incidenti. Ma nonostante i continui e appassionati appelli, il carrozzone pattina e sgomma, slitta sul suo stesso terreno, fa tanto rumore e fumo, ma rimane inchiodato alla linea di partenza. Il più giovane e dinamico capo del governo italiano (dopo Benito Mussolini) corre molto e inciampa spesso.

La strategia e i piani di Renzi e Padoan sono demoliti dalla Commissione Europea, l’Italia non ha una strategia su ricerca, innovazione, agenda digitale, competitività, sviluppo tecnologico, cultura. Per questo motivo, l’Ue ha deciso di rimandare a settembre il piano italiano sui nuovi fondi europei, quelli relativi al settennato 2014-2020. A rischio ci sono circa 40 miliardi di euro, la politica di Renzi non convince Bruxelles. Senza quei soldi, si ferma tutto. Gli annunci, gli spot e le battute non portano da nessuna parte. L’Europa se n’è accorta. Renzi e il suo Governo rischiano grosso e con esso le/gli Italiane/i. A non ripartire, sono tutti i grandi comparti: agricoltura, industria (nonostante il dato positivo della produzione dello 0,9% dopo il tracollo di maggio) e servizi viaggiano tutti con il segno meno. Niente effetto 80 euro, insomma, almeno per ora. Per ora Renzi crede nel suo azzardo, rassicura che non ci sarà bisogno di una manovra aggiuntiva, sperando nell’entrate della “spending”. Incassa la bocciatura della confcommercio, che giudica nullo l’effetto del taglio dell’Irpef per la ripresa dei consumi, e la delusione dei quattromila insegnanti che hanno visto sfumare la pensione mentre erano in dirittura d’arrivo.

Da dieci anni aumenta l’astensione e la crisi di credibilità delle Istituzioni. La risposta politica è stato un arrocco con il Porcellum e liste bloccate alla Camera e il Senato scelto direttamente dai partiti, sanno che non funzionano più come strumenti di mediazione sociale tra persone e palazzo. Hanno reagito chiudendosi in se stessi cercando una supplenza nella “società civile”, nei cosiddetti “tecnici” e la supplenza del leader carismatico. Nonostante gli scivoloni Renzi, tra un colpo di fiducia, una tagliola e una brasatura di massa degli emendamenti sta spazzando via la seconda camera elettiva dello Stato, prepara un’ennesima legge elettorale con l’asso pigliatutto per consolidare la democratura italiana. In un paese dove amicizie e clientele resistono nei decenni Renzi rischia di perdere per strada alcuni preziosi segmenti della sua base. Nonostante le statistiche lo diano in lieve calo di popolarità, riesce a rappresentare il nuovo che avanza, mascherando il taglio di migliaia di posti di lavoro nella pubblica amministrazione per lotta alla burocrazia. Il taglio di metà dei distacchi sindacali nel pubblico impiego, se alimenta la fama del leader che non guarda in faccia nessuno, allunga la fila degli scontenti. La Cgil sottoporrà alla Commissione Europea la riforma del lavoro. Camusso non proclama un’ora di sciopero contro le misure del governo, ma gioca la carta europea per punzecchiare Renzi; che cerca di instaurare una relazione diretta con il “popolo” tagliando i ponti con gli organismi di intermediazione sociale come il sindacato (post) concertativo e la stessa Confindustria. Riuscirà Renzi piè veloce a compensare da solo la chiusura dei canali di comunicazione, di colmare l’abisso, tra cittadini e palazzo, attraverso la forza mediatica del premier innovatore, dinamico e decisionista? La tenuta si vedrà nel tempo, ma al momento, in parte, funziona: non nel senso che avvicina di più i cittadini alla politica (anzi), ma nel senso della speranza che questo leader “faccia qualcosa di buono”. L’assenza apparente di alternative permette che in qualche modo il sistema vada avanti. Ma quanto può durare, un equilibrio così? Quanto a lungo cioè l’icona del leader può supplire alla non rappresentanza del sistema rappresentativo? Prima o poi la bolla scoppia e rischia di scoppiare in qualsiasi momento alla prima delusione popolare verso il governo, o per contingenze economiche o per altri motivi. Un giorno non lontano il fragile equilibrio personalistico si spezzerà, senza un impianto democratico in cui i cittadini si sentono rappresentati. Presto sarà chiaro che lo scopo non è risollevare l’economia e salvare italiche sorti, quanto traghettare in senso aziendalista ed efficientista. Nelle società ben organizzate, sia le imprese private che quelle pubbliche tendono a essere efficienti; in società più corrotte e male organizzate, sia le imprese pubbliche che quelle private funzionano male. In realtà inefficienza non è la parola giusta. Per esempio il servizio sanitario è molto efficiente, nello svolgimento del suo ruolo istituzionale, di arricchire chi investe. Per il presidente della Bce, Mario Draghi. ”E’ probabilmente giunto il tempo di iniziare a condividere la sovranità a livello europeo anche per quanto riguarda le riforme strutturali”, “fare sul piano delle riforme strutturali quello che è stato fatto a livello di bilancio“. I trattati internazionali costituiscono altrettanti incentivi per l’arroganza delle lobby affaristiche interne, in particolare per la lobby delle privatizzazioni e la lobby della finanziarizzazione. Come col Trattato di Maastricht, accadrà anche per il TTIP. Le cosiddette “riforme” consistono nella liquidazione di qualsiasi contrappeso istituzionale che possa ostacolare, o ritardare il saccheggio delle risorse pubbliche, come nel decreto “Terre vive”. Piovono tagli e svendita del patrimonio pubblico, ed aspettando le prossime privatizzazioni, l’opposizione sociale e conflittuale va ridimensionata con ogni mezzo a disposizione: inchieste, atti amministrativi, manganelli. Come gli sgomberi delle occupazioni e l’art. 5 del Piano casa o la repressione dei movimenti NO TAV e NO MUOS e delle altre lotte territoriali e sociali dimostrano.

Noi non ci siamo mai illusi che, modificando qualche legge o votando qualcuno possa modificarsi la situazione. Disoccupazione strutturale e taglio dei servizi rendono la vita difficile se non impossibile chi è lontano dai privilegi della casta burocratica o dall’oligarchia padronale.

Nell’Italia delle larghe intese del Renzusconismo non c’è spazio per chi costruisce esperienze concrete e radicate di alternative. Le avvisaglie sull’articolo 18 su cui tutto il PD-PDL è unito nel definirlo un totem ideologico, un residuo r-esistenziale, aprono la porta alla riforma dello Statuto dei Lavoratori, partorito, col cesareo, in un periodo di grandi lotte dal basso e aspettative.

Sul piano sociale il renzismo non ha consenso, è urgente riafferrare una qualsivoglia credibilità, ricordarci chi siamo e contro cosa stiamo organizzando il conflitto nei nostri territori, nei luoghi del non lavoro, di studio. Recuperare una dimensione collettiva, politica, sociale e ideale, riscoprire e reinventare qualcosa che si è smarrito nell’atomizzazione sociale, ma è là, nella vita quotidiana di ognuno di noi.

                                                                                                 Orestes

Pubblicato sul n. 24 di Umanità Nova, anno 94, settembre 2014

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Guerra di patrie? No genocidio di militari ai danni dei civili.

Quando sentiamo parlare di patria, nazione e, soprattutto, quando in nome di fittizie costruzioni delle gerarchie che sustanziano un potere coercitivo, si inneggia alla morte e alla distruzione non possiamo che rabbrividire. Quello che sta accadendo in questi giorni nella striscia di Gaza ha, ancora una volta il sapore della sconfitta del genere umano: miglia di civili, fra cui numerosi bambini, muoiono di morte atroce, proprio come fossero un pugno di mosche ma noi, nemmeno alle mosche auguriamo una fine del genere. Governi che si accusano vicendevolmente, di essere terroristi, mietono migliaia di vittime ma il colore del sangue rimane sempre lo stesso. Migliaia di uomini, donne e bambini privati della libertà, privati della vita. Questo stato di cose testimonia, se ancora ve ne fosse bisogno, che ogni stato basa la propria potenza sulla repressione e sulla morte di gente inerme che non ha possibilità di difesa, che non sa e non riesce a sfuggire. Questa assurda guerra, è in più, come spesso accade, avvalorata dagli stati, o forse dovremmo dire dalle multinazionali, dai grandi interessi economici e bancari autoproclamatisi stati democratici al servizio del popolo, che difendono i loro interessi vendendo beni preziosi quali le armi. L’Italietta renziana non si sottrae a questo funesto rito, infatti fomenta il clima guerrafondaio nel bacino mediterraneo, aumentando le spese per gli armamenti (mentre taglia senza pietà e forse con sottile godimento sadico, le spese dedicate al benessere degli uomini e delle donne che vivono questa terra) e avvalora operazioni come “mare nostrum” e il mostro delle antenne di Niscemi, nel più totale disprezzo delle volontà popolari. Questo stato di cose non può sussistere! Esprimiamo, come Fucina Anarchica di Cosenza la nostra vicinanza a tutte le innocenti vittime di questa guerra, di questo genocidio. Sosteniamo tutti coloro i quali, al di là delle vuote etichette di israeliani e palestinesi, si oppongono ai governi israeliani e palestinesi che dietro un militarmismo vuoto, dogmatico, religioso, danno vita a questo temibile spargimento di sangue. Non vogliamo scadere nella più bieca retorica della solidarietà di facciata: colpevole di questa come di tutte le guerre è il sistema statale, il sistema gerarchico marziale, ossia tutto quello che spersonalizza le coscienze umane in favore dell’arricchimento dei padroni che sulla terra diventano sempre più pochi, sempre più forti. Ci appelliamo a tutti coloro i quali provano orrore innanzi al sangue versato: non si muore per una patria, non si muore per un pugno di terra, non si muore per niente. Basta guerre, basta governi sanguinari, basta alle guerre imperialiste. Liberiamo l’essere umano dalle sue catene.

volantino della fucina anarchica 22.7.14

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Job Act e Noi

Sei in cerca di lavoro? Speri di avere un contratto a tempo indeterminato, ma ti accontenteresti anche di un contratto a termine? Fermati un attimo a leggere questo volantino, ti saranno chiare molte più cose!disoccupazione-Italia-3
È stato approvato il Jobs Act un nuovo testo sul lavoro, esso riguarda la semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine. Le nuove disposizioni che vanno anche a ridefinire il contratto di apprendistato alleggerendolo degli obblighi formativi; i contratti a termine potranno durare 36 mesi, all’interno dei quali saranno rinnovabili fino a 8 volte senza intervallo, senza una giusta causa che li giustifichi. Il numero dei lavoratori e tempo determinato potrà aumentare del 20%; ad ogni scadenza potranno essere sostituiti con altri lavoratori freschi da spremere, pagati un terzo rispetto ai loro padri sognando le protezioni sociali di qualche anno fa. Flessibilità in entrata e in uscita. Tutto questo rende ancora di più l’apprendistato un contratto “usa e getta” da sempre sperato dai padroni. Per quanto riguarda i contratti a termine invece, questi saranno totalmente “liberi” da ogni vincolo per i primi 3 anni (fino ad ora lo erano per un anno). La stabilità con queste norme diventa una vana speranza per i lavoratori ed un brutto ricordo per i padroni. Novità anche per le donne: il congedo di maternità potrà concorrere a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza.
Il governo Renzi porta a casa il risultato di aver messo mano alle riforme del mercato del lavoro. La sua immagine ne esce rafforzata, poiché soddisfa sia il suo blocco sociale di riferimento, sia l’Europa delle banche e le imprese che da sempre si lagnano per l’alto costo del lavoro e dell’energia in Italia. La realtà, quella che viviamo giorno dopo giorno, è quella fotografata dalle statistiche sulla disoccupazione fornite dall’ISTAT, al 12,7% in marzo per il terzo mese consecutivo, è quella di un paese, dove la precarietà è diventata normale e la disoccupazione strutturale. Quella giovanile, nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni, è al 42,7%, quasi 60% in Calabria. Le statistiche ci raccontano che Alfano, Renzi e compagnia cantante, non traggono il loro consenso tra i disoccupati, ma tra quelli che ancora conservano l’illusione che la notte possa passare. Nel bel paese, solo nell’ultimo anno mezzo milione di persone ha cercato fortuna altrove.
Lavoratori sempre più precari, disoccupati, giovani flessibili, sempre più meticci, dalle diverse lingue, possono provare a dare altre risposte: costruire sicurezza sociale al di fuori dello stato, non con i manganelli e la violenza, ma con una istruzione garantita e libera per tutti, con l’assistenza ai più deboli, con la dignità del lavoro nelle comunità, prospettando un futuro in cui vivere senza doversi vendere come schiavi o prostitute. La permanente gravità della crisi e le ricette capitalistiche che continuano a imporci, sono i motivi che ci spingono a continuare la lotta per il rovesciamento di questo modello di sviluppo a favore di un sistema fondato sui beni comuni e la redistribuzione di reddito. terra comune
Crediamo nella gratuità delle nostre relazioni basate su meccanismi di solidarietà. Pensiamo che l’assenza della proprietà privata, l’auto-recupero e l’autogestione siano elementi di arricchimento nelle relazioni sociali. Ognuno, al di fuori di qualsiasi logica mercificata, può contribuire secondo le proprie capacità e soddisfacendo le proprie necessità a una relazione di scambio reciproco. Siamo convinti che le nostre idee abbiano la capacità di indicare una strada praticabile da tutt* e che siano in grado di costruire una forza collettiva in grado d’innescare un processo di trasformazione rivoluzionaria.

                                                                                                          Orestes

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